Oumou

La versione di Oumou: La maternità dà la forza

 

Oumou non sapeva molto dell’Europa quando viveva nel suo villaggio in Costa d’Avorio. Dell’Italia praticamente nulla. Tutti i racconti che circolavano tra le donne, ancor prima di essere promessa in sposa dalla famiglia, erano legati al “Parisienne”. Così era chiamato l’uomo che aveva visto Parigi, c’era vissuto. Racconti e leggende su quella città grande, quel mondo irraggiungibile e diverso. Erano storie dorate e forse allora, per la prima volta, sentì parlare di Italia. Fantasie e strambi racconti per serate conviviali. Il quotidiano era altro: obbedienza alla famiglia, un debito da saldare per la terra che si coltivava, un marito che non si sceglieva. 

L’odissea della giovane africana 

Superati da un poco i 25 anni, benché i conteggi delle stagioni non siano così facili, Oumou, bellissima donna dell’orgoglio africano, sembra aver vissuto cento vite in meno di un decennio. Alta, slanciata, elegante e regale indossa i tessuti e i vestiti dai disegni ivoriani, fabbricati da un amico che vive vicino ad Acqui, Piemonte, dove da quasi tre anni lei è approdata dalla sua odissea, insieme al figlioletto. 

Oumou è un nome d’origine araba diffuso in Africa Occidentale e ora in Francia; il suo significato rimanda alla Madre, a chi si prende cura e alleva. La decisione del nome è importante nell’Islam. Per il profeta occorre scegliere bei nomi perché nel giorno della Resurrezione “sarete chiamati col vostro nome e col nome dei vostri padri”. E per i commentatori del Corano «dare un nome che abbia un senso significa indicare al neonato una direzione, un ideale da raggiungere». Anche perché «la disgrazia è un effetto della parola», diceva Maometto. Oumou racconterà alla fine, aprendosi in un sorriso, che la forza per andare avanti oltre tutte le violenze e le sofferenze è stato proprio il figlio, il piccolo Issif, lei si è battuta per lui, l’ha protetto e allevato portandolo via da quel mondo brutale che ha conosciuto. Ha fatto la Oumou, la Madre. 

«Avevo 13 anni quando mi hanno fatto sposare, lui forse 50. Ero la seconda moglie. Dovevo sposarlo, non si chiede ad una ragazza cosa vuole. Io non ero mai andata a scuola. Sapevo che dovevo farlo, mio padre conosceva la famiglia dello sposo e utilizzavamo la loro terra. Un giovedì ci fu la cerimonia e da quella sera per una settimana fui chiusa nella sua casa, nutrita solo con acqua bollita e poco riso. Devi perdere le forze così non ti ribelli all’uomo. E se poi ricevi delle botte anche tua madre ti dice che devi fare solo quello che dice il marito. C’era già una moglie che aveva figlie femmine, se continui a fare femmine non è bene, non fai il tuo dovere…poi nacque il mio primo figlio, che come vuole tradizione fu chiamato Mohammad, come il Profeta, si usa così per il primogenito. Ma si ammalò di meningite».

Tra dioula e francese

«Parlo francese, oltre alla lingua dei Dioula, è il francese imparato nella strada, come tutti in Costa d’Avorio». Il francese dell’Africa occidentale è «stentato e aspramente accentato», raccontava il premio Nobel per la letteratura V.S. Naipul ne “I coccodrilli di Yamoussoukro“, la capitale amministrativa rilanciata dal primo capo e dittatore ivoriano. Nel Paese esistono una sessantina di etnie diverse e 4 lingue principali, i Dioula appartengono al gruppo linguistico dei Mandés gialli, nel Nord. «Parlavamo francese e lavoravamo, poi nacque il secondo figlio Issif. E quando cominciò a camminare mio marito morì. Da quel momento cominciano le mie sofferenze. Già vivevamo con la famiglia di lui, e il fratello, che aveva tre femmine, iniziò a picchiarmi e pretendermi, non mi dava da mangiare. Io dovevo lavorare e sottomettermi, diceva che era colpa mia se mio marito era morto. Io cercavo di guadagnare qualcosa, anche facendo le treccine, per andare avanti. Misi da parte un poco di soldi e riuscii a scappare, grazie a Dio con mio figlio che aveva meno di 4 anni. Sono fuggita dopo che una delle figlie della prima moglie aveva tentato di uccidere Issif. Chiamarono persino la polizia ma tutti mi dicevano che era colpa mia, dicevano che dopo la morte di mio marito avrei dovuto sposare il fratello. Issif piangeva, era spaventato. Solo dei vicini, degli zii, li chiamavamo Tonton, mi aiutarono per fuggire in città, a Bouaké, per 2000 franchi mi mettono sul camion con Issif perché loro facevano il trasporto di cipolle verso il Mali. 

In fuga verso il Burkina Faso

Per un mese aiuto in casa del camionista, nella città, ma un giorno vedo che il fratello di mio marito è arrivato fin lì e si sta informando con il camionista. Allora lo zio mi propone di andare sempre con i camion di trasporto verso il Burkina Faso, dove aveva una sorella che aveva un ristorante. Prendo Issif e parto. Arrivata lì facevo lavori in casa, pulivo e aiutavo al ristorante che era vicino alla stazione. Per due-tre mesi andiamo avanti così, io e Issif. Poi una sera mentre sto lavando i piatti in cucina vedo al tavolo ancora lui, il fratello di mio marito che mi cercava. Io riesco a capire allora di essere parte di un debito che aveva fatto mio padre con la famiglia di mio marito per l’utilizzo dei campi. La stazione è un luogo troppo insicuro, e Tonton decide di farmi allontanare ancora di più, fino in Niger a Niamey, la capitale. Durante il viaggio viene concordato con una donna che io e Issif staremo da lei e l’aiuteremo nella coltivazione delle cipolle, Tonton mi dà anche diecimila CFA (poco più di 15 euro, il CFA è il franco delle ex colonie francesi, ndr). La mattina sto con la donna, ma la notte quasi subito arriva suo fratello che mi vuol prendere e mi picchia. E lo fa anche davanti a Issif. Tre settimane sono andata avanti così e poi, avevo ancora duemila CFA, prendo il bambino e fuggo verso Agadez, nel Sahara, sulla rotta verso la Libia. Fermo una macchina e chiedo di portarmi verso il Sahara con il bambino. Ma non hai bagagli? Mi chiede l’uomo. E allora gli racconto la mia fuga. Così mi porta alla stazione di Agadez dove spero di trovare un lavoro e qualcosa da mangiare per Issif. Passo la notte in stazione e l’uomo che mi aveva accompagnato torna la mattina dopo e mi dice: ancora sei qui? In tanti vanno verso la Libia per andare in Europa se vuoi ti cerco un passaggio. Allora trova delle persone e si mette d’accordo per la benzina. Un viaggio in camion nel deserto che dura giorni e giorni, due settimane, con l’uomo che guidava di giorno e la notte mi voleva per lui e minacciava Issif. 

La casa della maliana in Libia

Arrivati in Libia ci lascia per strada. Non avevo niente, ero disperata. Mi si avvicina una donna, una del Mali. Parlava bambara. Si racconta che i maliani siano ospitali e gentili. Io mi fido e le racconto la nostra fuga . Mi dice di andare da lei dove potrà mangiare il bambino. C’erano altre quattro donne: era un luogo dove venivano gli uomini per stare con le ragazze. Io non avevo scelta, lì si mangiava. Io non potevo uscire ma Issif aveva cibo e un posto dove dormire. Dio mi ha dato un dono ed è la bellezza e gli uomini sceglievano me, quasi sempre me. Finché una sera sentimmo degli spari, erano arabi con le armi che entrarono e spararono a Mariana, la donna maliana, la ferirono ad un piede, noi tutte scappammo, io con Issif. Mentre fuggivamo sulla strada un uomo in auto prende Issif e allora l’imploro di prendere anche me. Mi fa salire e ci porta in una casa dove mi violenta e ci tiene chiusi per tre giorni e tre notti a latte e biscotti. Poi, non era né notte né mattino ci viene a prendere e ci porta al mare. Ci sono tante persone, non conosco nessuno. Ci sono delle barche e saliamo tutti. Siamo sul mare. Passano le ore, il sole cresce dall’acua e poi scende. E alla sera vediamo una grande nave. Era della Marina Militare italiana. Una donna si mette a piangere. Saliamo e ci vestono, ci danno persino delle scarpe, non sapevo neppure il numero e la misura del mio piede e di quelli di Issif. Il bimbo sviene per la fame e l’emozione. Ci danno da bere e da mangiare. Abbiamo anche una stanza con solo donne e bambini. Sbarchiamo in Sicilia, la data me la ricordo perché l’hanno scritta sui miei fogli: 17 novembre 2016. Grazie a Dio. Dopo ci trasferiscono in bus e arriviamo a Settimo Torinese, il centro più grande. Era una sabato quando siamo arrivati e il lunedì dicono che ci sono posti ad Acqui. E se Dio vuole ho incontrato loro di CrescereInsieme». 

La nuova vita

E questo è il capitolo nuovo di Oumou, non ancora del tutto scritto. «Adesso viviamo in questa casa in cinque donne, due somale e 3 ivoriane, e tre bambini. La mattina mi sveglio per accompagnare Issif a scuola e la sera lo vado a riprendere. In questo palazzo non ci sono vicini italiani che si lamentano o fanno dispetti. Poi mi occupo della casa e a turno prepariamo per mangiare o tenere i bambini. Faccio volontariato alla mensa dei poveri mercoledì e sabato, poi c’è il tirocinio alla piadineria, le pulizie al centro di Canelli. A volte faccio ancora le treccine, anche per delle italiane. E poi la mia passione: il teatro e il ballo. Sono molto orgogliosa e contenta, ho persino partecipato come modella ad un laboratorio sartoriale. Ero così emozionata. Dio mi ha dato questo dono. Qui tante volte mi fanno dei complimenti per strada, anche per i miei vestiti africani. Io non me la prendo, a volte mi fa piacere. I complimenti li fanno anche a Issif. Non ho sentito razzismo, anche se la mia pelle non è poi molto nera. Siamo tutti uguali, donne, uomini, più o meno scuri. Ma la mia passione è il ballo, la danza. Mi piace la musica julà con i tamburi, come ai matrimoni. Al centro sociale la prima volta quando ho ballato ho capito: c’era gioia negli occhi, nei miei e in quella degli altri che ballavano. A casa ascoltiamo tanta musica.anche quella italiana. Il canto è gioia di vivere. C’è una canzone tradizionale in Costa d’Avorio, in lingua dioula, mi piace tanto. Una madre canta al figlio: non sarò io a mostrarti le cose malvagie, ti parlerò solo delle cose positive…»

«Qui in Italia ho scoperto me stessa. Io tutti i giorni ringrazio per questo: siamo stati accolti, dopo tre giorni Issif era già all’asilo, a scuola. Ha sofferto tanto. Io gli dico che ora è al sicuro, ma all’inizio quando un poliziotto si è avvicinato lui si è spaventato ed ha pianto. So che ha tutti questi ricordi e io non mi metto a tirarli fuori. Ora preferisco che faccia solo il bambino. È stato solo lui a darmi la forza di andare avanti». Per Oumou il femminile di uguale si declina così, con la forza della maternità. «Battersi per il figlio. Ora sogno di stare bene come adesso. Non è come prima. Io non sapevo cosa volevo. Ora ho coraggio. Ho imparato tante cose, con i laboratori teatrali, la scuola, so scrivere il mio nome, l’ho scoperto tutto qui, qui ad Acqui. Ho qualche notizia della mia famiglia in Costa d’Avorio, di mio figlio Mohammed, di uno dei miei fratelli. Ho capito che è importante battersi per se stesse, importante è sposarsi, scegliersi e fare figli e in Africa siamo ancora indietro. Qui gli uomini e le donne sono uguali. Le donne possono fare qualsiasi lavoro e andare a scuola. Solo così si capiscono i propri diritti. E la mamma e il papà si battono per il futuro dei figli. Per crescere e imparare ho attraversato cinque Paesi…». E il “Parigino”, cosa ci racconterebbe ora “le Parisienne”?

                                    Maurizio Paganelli

#framevoicereport #ilfemminilediuguale

con il supporto finanziario dell’Unione Europea