Laure
La versione di Laure: Una donna che pensa
La canzone di Laure
Laure Toaga, volto tondo e capelli ricci con treccine, si trova bene in Italia, a Castelnuovo. È dal 9 ottobre del 2015 che è approdata nel Belpaese. «Qui c’è pace e la donna è uguale all’uomo, molti sono andati in Francia, ma io sto bene qui, ho seguito i progetti di CrescereInsieme, ho una casa, lavoro, mia figlia va a scuola. Sto bene qui». Ha 32 anni, viene dal Camerun, il padre faceva le strade, la mamma era sarta. Ha due sorelle e due fratelli. Quando Laure aveva due anni il padre, che era stato mandato lontano per lavorare, muore. La madre, rimasta con cinque figli, decide di andare via dalla città dove vivevano e tornare al Nord dalla sua famiglia dove abitava ancora un fratello. Niente scuola, «non per le femmine. La donna deve stare a casa non deve pensare, deve accudire i fratelli, pulire, lavare, cucinare», spiega Laure. Già a 5 anni sa quale sarà il suo futuro: sposare un uomo di 20 anni più grande di lei, l’uomo deciso dallo zio e della mamma. La famiglia è cristiana, sarebbe uguale se fossero musulmani o animisti. Dell’Italia e dell’Europa, a quel tempo, aveva sentito parlare in tv e certamente già conosceva la pizza…
A 15 anni è il tempo del matrimonio, lui ne ha 35. C’è festa, ci sono i balli, si trasferiscono in città. Passati due anni nasce Gel, la femmina, e dopo altri due, Boby, il maschio. Il marito è un tipo violento. Pretende e mena. L’adolescente Laure ne parla con la zia e poi con la madre. La prima «non ne vuole sapere nulla», la mamma dice che così sono tutti gli uomini e che lei deve stare in casa e subire. A questo punto la vita di Laure cambia: la Nazione chiama gli uomini per combattere al confine con la Nigeria le incursioni degli estremisti islamici e il marito parte militare. Non tornerà più. Laure ha poco più di vent’anni e si trova con due figli, la più grande neppure 5, deve pagare l’affitto e fa qualche lavoro, allora decide di tornare a Nord, dalla mamma e dallo zio, la vita riprende con lei che deve pulire la casa e mai pensare, sempre e solo obbedire. Lì al Nord, al confine sempre con la Nigeria, si susseguono gli scontri armati con le milizie jihadiste di Boko Haram. Brevi incursioni armate nei villaggi soprattutto dei cristiani. E una mattina ecco per Laure il secondo cambiamento: uomini armati di Boko Haram arrivano al villaggio e sparano su tutti. Lo zio e un vicino vengono uccisi, Laure con la mamma e i bambini fuggono nel bush, nella foresta, lei è ferita. Inizia la grande fuga dalla guerra.
Si cerca scampo verso la Nigeria, laggiù c’è un piccolo ospedale che cura i feriti. Dietro non si può tornare, il villaggio è abbandonato da tutti. Sono i racconti che leggiamo, qui in Italia, seduti al bar o in poltrona. Titola il reportage del quotidiano l’Avvenire: Non si ferma l’esodo a Nord degli sfollati interni e dei disperati dalla Nigeria. Nella regione di confine raddoppiati gli attacchi dei jihadisti: «Terrore, ma nessuno ne parla». E negli anni il clima è peggiorato.
Laure, ferita, deve passare dall’ospedale per farsi curare ma ha paura per i bimbi e la mamma. Cercano un posto sicuro dove passare la notte, nella boscaglia, protette, mentre Laure andrà a farsi curare. Si salutano. Sarà l’ultima volta che lei vedrà i suoi due figli e la madre. Gel avrà avuto sei anni, Boby 4.
L’ospedale è affollato, caotico. Laure viene curata ma deve passare la notte ricoverata. All’alba ritorna nel posto dove aveva lasciato la mamma e i figli ma non li trova. C’erano altri come loro in fuga. Chiede, cerca ancora. Nulla. Continua a guardare intorno, vaga, si dispera. Torna in ospedale. Deve restare per farsi curare. Lei comunque trova il modo di tornare in quel punto dove si erano lasciati. Aspetta. Lo fa per alcuni giorni. Poi deve rassegnarsi. «Tornavo in quella strada in quel punto a cercare i miei figli, non sapevo che fare. Resto dei giorni in ospedale fino a che mi dicono che non posso più stare lì. C’è folla, non c’è posto». A quel punto Laure incontra una signora che ha una meta sicura da raggiungere, ma vorrebbe un’altra donna con cui viaggiare. La signora vuole andare in Italia e le propone di anticipare i soldi per il viaggio, basta che stiano insieme…Laure non può tornare nel suo villaggio, i cristiani sono in fuga da tutti i villaggi attaccati da Boko Haram, l’esercito non può proteggerli.
È la terza svolta: parte sulla rotta, ormai battuta da tanti, che arriva, via deserto, sul Mediterraneo, in Libia, sul mare. A piedi, qualche volta sui camion, si passa per le carrozzabili del Niger, poi l’Algeria per approdare in Libia. Pericolosi e, per alcuni, anche mortali tragitti. Laure non ama ricordare le privazioni, le notti, le violenze. Mesi e mesi di viaggio, incontri, piccoli lavori per avere qualche soldo per mangiare. «Facevo treccine alle donne per guadagnare qualcosa, come le facevo in Camerun», sorride Laure. Si accompagna con un uomo, forse come protezione di fronte agli stupri e alle minacce di camionisti e sbandati, ladri e profittatori. Passa l’estate si accorge di essere incinta, ma né il suo stato né la compagnia della signora e dell’uomo incontrato, la protegge da nuove violenze. In Libia restano due mesi, poi la signora si accorda per partire su una barca, l’appuntamento è di notte, i soldi, che Laure dovrà restituire, li anticipa per entrambe la signora, come promesso nel bush in Nigeria.
È l’inizio di ottobre, si sale sulla barca tutti stipati e stretti, bagnati e impauriti di fronte al grande mare, si dà l’addio alla costa africana. «Notte bianca, notte strana, con la riva che si allontana…», come cantava in Capo d’Africa Francesco De Gregori – «si parte e si va via…Una spiaggia tranquilla, una terra promessa, l’inferno e il paradiso, dove un giorno potremmo sbarcare a cavallo di un nuovo sorriso…».
Buio e luce, poi la mattina una grande nave prende quel gruppo di disperati, per tre giorni ancora in mare e poi, il 9 ottobre 2015 come sa bene Laure, vengono sbarcati a Lampedusa, lei incinta quasi al quinto mese. «Ci danno da mangiare, vestiti, scarpe e io vengo portata fino a Settimo Torinese dove rimaniamo tre settimane, poi a Moncalieri 5 mesi, dove nasce mia figlia Linsha, il 28 febbraio, e poi arriviamo io, il mio compagno e mia figlia a Canelli e rientriamo nei progetti di CrescereInsieme. Linsha ora ha tre anni e va all’asilo, io lavoro in un agriturismo e durante la vendemmia. Ho seguito i corsi di CrescereInsieme, cucina, parrucchiera ma anche ballo, e ora sono fuori dal progetto. Ho una casa, guadagno qualcosa, posso dire la mia, parlare e pensare, non c’è la guerra, la bambina va a scuola. Mi trovo bene in Italia, qui in Piemonte».
“Io conto”, sembra dire Laure Toaga. Per lei il femminile di uguale si traduce in una donna con il diritto di pensare e di studiare. Ha ancora da dire qualcosa in questa storia di svolte: su Facebook ha raggiunto una sua zia che abita lontano dal villaggio della mamma in Camerun e ha saputo che i suoi due figli sono in un altro villaggio insieme a sua madre. Ma non li ha potuti ancora né sentire né vedere. Stanno bene? Probabilmente, ma laggiù c’è la guerra. Ora Laure pensa a Linsha e si rattrista un poco. Con il suo uomo non va molto bene: «Dico che è un irresponsabile, spende soldi per giocare e fumare, non è un buon esempio per mia figlia. Qui non siamo come da noi che la donna non può pensare e l’uomo mena, dove non si può neppure parlare. Qui ho il diritto di parlare». Curioso: la provincia di Asti ha un record nel gioco d’azzardo, in certi Comuni si arriva ad una media per abitante di 6485 euro! La ludopatia è una malattia infettiva, non ha frontiere né guarda al colore della pelle.
Laure è pronta per un’altra svolta nella sua vita? È contenta e canta, le piace cantare, una canzone italiana e una canzone d’amore in francese. E nel raccontare la sua felicità anche sul lavoro, la pulizia delle stanze, l’aiuto in cucina, affiora un particolare dell’Italia dei nostri giorni. Nelle fotografie dell’agriturismo meglio che lei, nera, non ci sia. È così, preferibilmente fuori dall’obiettivo, in caso si taglia proprio. Ai margini, dietro il sipario. Bell’Italia.
Maurizio Paganelli
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