Beth
“Though she be but little, she is fierce!”
A Midsummer Night’s Dream by William Shakespeare.
Pur se un po’ piccolina, è agguerrita!
Sogno di una Notte di Mezza Estate, di William Shakespeare.
Beth ha 32 anni, vive a Nairobi da sola in una piccola casa, due stanze arredate con grazia e colori allegri, una stretta cucina e un bagnetto con l’acqua che arriva a singhiozzo due volte a settimana. Le taniche di plastica in posti strategici, quindi, servono per questo.
La casa di Jericho
L’entrata dell’appartamento si apre dopo pochi gradini dal cortiletto comune protetto da una porta di ferro. È una delle tante che si susseguono lungo l’ininterrotta barriera di lamiera che si affaccia sul sentiero sterrato. Il viottolo inizia da un piazzale dove c’è una baracca in legno con panchina, luogo di ritrovo dei maschi anziani per leggere il giornale, giocare e scambiare due chiacchiere. Un gallina razzola nelle vicinanze con una corda alla zampa ancorata ad un bastone, il tutto ingentilito da una grande Cassia dall’abbondante inflorescenza gialla, una tipica “Nandy flames” africana dai fiori rossi e più lontano, tra altre baracche, la chioma viola della Jacaranda.
La casa di Beth è nel distretto di Makadara, quartiere di Jericho, chiamato Jeri, uno dei più vecchi di Nairobi Est, creato per i lavoratori dopo l’indipendenza, 1963, con l’aiuto del governo israeliano. Superata l’Happyland school dai colorati murales, occorre proseguire sulla strada principale che ha ora una inaspettata e immacolata pista ciclabile, in direzione di Buru buru, e poi svoltare all’altezza della Gospel church, tra gli immancabili gommisti e un Car wash in piena attività. Le capre passeggiano ai bordi dell’arteria trafficata dove si susseguono uno accanto all’altro i negozietti d’ogni genere nel caotico via vai di persone, animali e auto.
Sogno di una notte di mezz’estate
Come nel Sogno di una Notte di Mezza Estate, l’indipendente Beth potrebbe essere descritta come fa Elena con Ermia: «Pur se un po’ piccolina, è agguerrita». Ma, al contrario di Ermia, la performer-artista, maestra di ballo e ginnastica nei più conosciuti ma anche più dimenticati slum del Kenya, non se la prende affatto per quel “piccolina”: lei è davvero agguerrita, forte e fiera. Fierce, come scriveva Shakespeare.
«Vengo da una famiglia modesta, umile. Sono cresciuta nei condomini di Makadara, case simili a quella dove vivo ora. Situazioni difficili perché avevo solo mia madre, mio padre è morto appena ho compiuto due anni. Ho tre sorelle e io sono la più giovane. Mio padre era un uomo d’affari, aveva qualche soldo ma la separazione dalla famiglia di mio padre ha portato a liti per l’eredità con i parenti. Mia madre ha dovuto occuparsi dei figli. Mamma ha sempre detto, “quando sarai abbastanza grande se hai voglia di richiedere le proprietà lo farai, io non posso perché preferisco pensare alla vita adesso”».
Un’artista e una donna indipendente
Beth potrebbe essere un’artista che vive al Greenwich Village di New York o in una romantica soffitta parigina, ma è il Kenya la sua patria. «No, da piccoli non avevamo molto e in più le mie sorelle sono rimaste incinta giovanissime e hanno fatto figli prima di sposarsi. Un problema in più…Ogni volta che una rimaneva incinta io mi sentivo che dovevo aiutare e tutti venivano da me per dirmi di stare attenta. Ripetevano sempre: “Se non stai attenta succederà anche a te”. Io studiavo ma mi facevano sentire in colpa. È stato ancor peggio quando la terza sorella ha avuto il bambino appena finito il liceo. Invece di incoraggiarmi, tutti dicevano quanto la vita fosse dura. Alla fine eravamo in sette a casa e mia madre a 55 anni è andata in pensione ma doveva sempre chiedere soldi in prestito. Ormai sembravamo marchiati. Quando chiedevamo soldi per finire la scuola e dovevo fare gli esami, i parenti dicevano che erano soldi sprecati perché anche io sarei rimasta incinta. C’erano continue riunioni in famiglia e io, persino quando mi ammalavo non lo dicevo a nessuno perché tutti avrebbero pensato che c’ero cascata. È sempre stato così. A 23 anni ho deciso di andarmene da casa. Ma continuavano a dire: “Inciamperà”. E lo hanno fatto fino ai miei 28 anni. Adesso hanno iniziato una nuova predica: “Hai aspettato troppo, non si ringiovanisce più, adesso devi fare un figlio, fra poco avrai 40 anni…” e così via chiedendomi sempre se ho un ragazzo e quando mi sposerò».
La scelta è mia
«Anche altri miei amici hanno situazioni identiche con le loro famiglie. Difficile convincere questi adulti che la scelta è mia, lo farò quando vorrò. Scelgo io quando sposarmi o quando fare figli. Scelgo io anche sul lavoro, sulle scuole di ballo e d’arte, sul mio futuro. Non sopporto di essere forzata. Vi racconto questo: un mio zio viveva negli Usa e io stavo decidendo se prendere un’ulteriore specializzazione in danza. Lui voleva darmi un mucchio di dollari ma solo per fare una scuola di teologia. Dal suo punto di vista l’arte non è lavoro. Mi diceva: Beth devi pur far qualcosa nella vita! Un’altra zia voleva farmi fare un corso da segretaria. Ma al contrario di quanto potreste immaginare tutto questo mi ha dato la carica per continuare nel mio lavoro di artista. Dio è grande, dice sempre mia madre, e proprio nei momenti difficili salta fuori qualche progetto, un lavoro, dei soldi».
Beth insiste su un concetto: decido io. «Se ancora non mi hanno accettato, lo faranno entro poco. Continuerò a fare arte e lezioni ai bambini, a meno che non sia il momento di cambiare, ma non perché qualcuno me lo impone».
Beth ricorda le sue lotte per fare danza, la madre contraria perché pensava la distraesse dallo studio. «Non dovevo fare attività extrascolastiche e io ci andavo di nascosto». Poi, appena Beth ha potuto, ha fatto un training in Senegal e poi la scuola di danza contemporanea, la scuola di recitazione. Racconta delle sue frustrazioni e delusioni perché nessuno della famiglia veniva ai suoi spettacoli. Le sue prime esperienze in due programmi tv, l’ebrezza del palco, il teatro, il rendersi conto di non guadagnare abbastanza e quindi decidere di specializzarsi nell’insegnamento di ginnastica e danza. Il dolore per non essere sostenuta e non essere presa sul serio da nessuno, niente aiuti in caso di difficoltà. «Non puoi chiedere soldi in famiglia, ti direbbero subito: vedi, l’arte non è lavoro, non guadagni…».
L’artista e l’uomo bianco
«Una volta una mia amica mi ha detto: non ti preoccupare, resisti. Prima o poi durante una tua performance verrà a vederti un uomo bianco molto ricco e ti sposerà e la tua vita sarà a posto. Vedete? Questa la percezione di quello che devono fare le artiste e di ciò che sono. Artiste che si sposeranno con l’uomo bianco e si sistemeranno. Io rispondo semplicemente che non è questa la realtà».
Nonostante tutti gli ostacoli e le contrarietà della madre per i sogni e le realizzazioni di Beth, tra loro il rapporto è saldo. «Mia madre posso chiamarla a qualsiasi ora. È un esempio. L’ho vista riuscire a fare tutto da sola, c’è sempre stata per me. Come le mie sorelle. Adesso se le chiamo perché sono stanca, magari per aiutarmi a pulire casa o fare il bucato, loro vengono subito».
«Io vivo da sola, non ho un ragazzo. I miei amici a volte non capiscono, ma se esco la sera già a mezzanotte non ce la faccio più. Loro vanno fuori tutte le notti, io vengo a casa, ho bisogno di sedermi, lì sul divano è il mio posto preferito. Accendo la tv, una bottiglia d’acqua, mi rilasso un’ora. Poi comincio a pensare a quel che devo fare. Dormo un po’ se non ho impegni, posso dormire fino a mezzogiorno, adoro dormire, è il mio modo di ricaricarmi. In questa fase ho bisogno di tempo per me stessa. Sono stata per tanto tempo con tante persone fuori. È il momento per conoscere me stessa, forse un periodo di cambiamento, i miei amici sono in un’altra stagione. Sarà un periodo di transizione. Se non sono al lavoro sono in chiesa o dormo o leggo un libro. Forse ho un’anima vecchia…ma sono felice».
Il lavoro con i bambini
Beth ha una passione “feroce” per il suo lavoro e per i bambini degli slum. «Vedo una parte di me stessa nei bambini. Ho un progetto di danza a Kibera (il più grande e famoso slum di Nairobi, ndr): in loro osservo la passione e la voglia di fare. Non hanno un posto dove migliorare, sono felici quando vengono nel laboratorio a ballare o saltare. Quello che succede a me: quando ballo mi sento felice. Anche quando sono stressata io ballo ed è come una terapia e vedo lo stesso accadere nei ragazzi. Vengono da situazioni molto disagiate, a casa spesso non hanno mangiato. Non sono esattamente le stesse condizioni che avevo io, e per me è una sfida. Vado una volta a settimana a Kibera e tutti loro sono impazienti di venire quel giorno. È il solo luogo dove possono scoprire se stessi, dove riescono ad esprimersi e affermare finalmente questo mi piace e questo no, si permettono di dire “non sopporto se qualcuno mi urla addosso o mi picchia e per questo sono arrabbiato”…».
La stessa cosa avviene con la ginnastica e la musica in un altro progetto della ong italiana Worldfriends, nel capannone di lamiera e mattoni del laboratorio di Bajuka che raccoglie i ragazzini degli slum e dei quartieri di Baba Dogo, Kariobangi e Korogocho, sempre nel nord est di Nairobi. Qui puoi vedere Beth impegnata con le ragazze di varie età nella ginnastica e ripetere le coreografie per un ballo con sottofondo della band della scuola. Tanti bambini guardano affascinati e in silenzio affollando la sala. Altri, appena fuori, si trasmettono esperienze e insegnamenti facendo pratica sui diversi tipi di strumenti di percussione.
«A Bajuka – racconta Beth – avevo anche una classe di teatro. Si trattava di ragazzi difficili, diciamo, e scusate il termine, un poco gretti, rozzi. Avevano talento ma anche forti emozioni che non sapevano come esprimere. Se dicevo vi insegno a recitare loro rispondevano: “noi sappiamo recitare, urlare, parlare, combattere se ci dai un palco…”. Col passare del tempo ho detto loro che era importante farsi una doccia prima di venire perché avevano contatti fisici tra di loro. Dopo un mese sono cominciati dei cambiamenti. Loro stessi si dicevano l’un l’altro: “perché non ti sei fatto la doccia? Non devi farla dopo il teatro, ma prima di cominciare…”. Ecco il percorso del cambiamento».
Differenze e impegno
Gli insegnamenti di Beth diventano le sue riflessioni sul “femminile di uguale”: «Ho capito che libertà è vivere con felicità senza pensare a quello che dicono gli altri. So di essere sulla strada giusta e quel che posso fare è dare la mia arte a tanti bambini. Credo che tutti meritano le stesse opportunità. Quando insegno non vedo chi è più forte o più debole. Per esempio in acrobatica valuto un ruolo in base al fisico ma se sei più debole ti devi solo impegnare di più perché tu possa arrivare ad una forza simile, dipende da te, hai sempre questa possibilità. Se lo vediamo dal punto di vista del rapporto uomo-donna appaiono le differenze ma l’importante sono le opportunità: ciascuno può tirar fuori qualcosa di forte. La mia forza non è la tua forza, se non eccello in una cosa non vuol dire che non valgo. Abbiamo forze diverse e ci completiamo quando lavoriamo insieme. Vi racconto, per farmi capire, quel che mi è accaduto: in un meeting ero l’unica donna e automaticamente mi passavano quaderno e penna per prendere la minuta della riunione. Perché, chiedo? Mi rispondono: sei donna, le donne scrivono meglio.. Allora li guardo e dico: che c’è di diverso? Le mie mani sono uguali alle tue. Se non fossi venuta non facevate la minuta? Anche se sei uomo potresti farlo bene, fallo finché non diventi più bravo di me…».
Maurizio Paganelli
#framevoicereport #ilfemminilediuguale
con il supporto finanziario dell’Unione Europea