Maria
Queste sono le storie di Maria, prima infermiera caposala laica all’ospedale Molinette di Torino, nel 1968. Lei viene dall’area metropolitana di Torino, da quel comune di Poirino, più di 10 mila abitanti oggi, che ha eletto da poco un sindaco donna. Ma nel dopoguerra, cinquanta-sessant’anni fa, nel profondo Nord dell’Italia, non solo la politica e le istituzioni ma anche l’istruzione erano privilegio dei maschi. «La donna non contava niente» e anche il nonno di Maria nel distribuire il soldino-regalo ai nipoti saltava a piè pari tutte le femmine perché «le donne non son gente», ripeteva. Di otto nipoti sei avevano i pantaloni e ricevevano il dono, le due con le gonne non lo meritavano, “non eran gente”. E anche dopo, pure nel testamento si spartiva il patrimonio solo tra i maschi. Persino il pianoforte che tra i fratelli Maria era l’unica a saper suonare, sparì d’improvviso un giorno con il consenso della madre, senza interpellare Maria, per il capriccio di un fratello maschio. La parità di genere? Così era, in Italia, nel 1950 o giù di lì.
Maria ne ha viste e subite tante di discriminazioni, ma ha tirato dritto guardando all’obiettivo che aveva in testa. «Certo avrei voluto far medicina, ma mi sono accontentata di far l’infermiera e poi far il corso da caposala». Ha dovuto lottare per studiare. E neppure la mamma l’ha mai appoggiata; il papà che aveva una fabbrica di teleria con 60 operai la voleva lì in amministrazione. Lei, colpita fin da piccola dall’inguaribile malattia che ha i sintomi della solidarietà, pietà, carità ed empatia, voleva invece proseguire gli studi per aiutare il prossimo. Come aveva visto fare a Poirino dalle suore del Cottolengo. Il papà alla fine non l’ha ostacolata, al contrario della mamma che non capiva e non ha mai capito. «Noi donne si doveva saper ricamare, pulire e prepararsi al matrimonio», sorride Maria che ha un maschio e una femmina ormai quarantenni e per i quali lei e il marito, ex operaio alla Pirelli morto appena andato in pensione, non hanno mai fatto differenze.
Per Maria e la sorella niente balli (“quanto mi piaceva ballare!”), niente uscite la sera, vietata la discoteca il Prato, niente auto. Pure i libri eran proibiti. «Tanti divieti e alla fine a me piaceva Cronin e Liala, figuriamoci…Non mi sono mai demoralizzata, e la patente l’ho presa a 29 anni». No, per i maschi era tutta un’altra musica, nessuno di questi divieti. Eppure quando nacque lei, primogenita, il papà per festeggiare fece arrivare i gelati di Pepino da Torino e offrì un gran banchetto.
Maria racconta e snocciola la sua saggezza fatta di parabole, buonsenso, tolleranza e comprensione; parla seduta sul divano di casa di Torino, un appartamento nello stesso palazzo dell’adolescenza di Natalia Ginzburg: «Era in via Pallamaglio (oggi via Oddino Morgari, a San Salvario, ndr). La nuova casa era all’ultimo piano e guardava su una piazza, dove c’era una brutta e grossa chiesa, una fabbrica di vernici e uno stabilimento di bagni pubblici; e a mia madre nulla sembrava più squallido che vedere, dalle finestre, uomini, che entravano nei bagni pubblici con un asciugamano sotto il braccio…(…) Mia madre disse: -Cosa importa che stiamo vicino alla stazione, noi che non partiamo mai?» (da Lessico famigliare). Ora in via Morgari c’è una targa ricordo sul palazzo e alla Ginzburg è intitolata l’aiuola tra la chiesa e gli ex bagni pubblici oggi “Casa del Quartiere”, luogo delle associazioni e degli incontri pubblici, dal momento che il Comune non ha trovato più gestori per tenerli aperti. Di quel periodo resta memoria nel nome del ristorante accanto, Bagni Municipali, che sembra funzionare, dice Maria. In quel piccolo spazio verde, sulle panchine, stazionano immigrati senza dimora che si contendono con arroganza e violenza il posto per la notte. Ma niente più doccia e saponi.
Nel suo appartamento Maria racconta incorniciata, nella parete alle sue spalle, dalla collezione di piatti in ceramica bianchi e blu, piccolo vezzo di una vita semplice. Una maglietta a V nera con i brillantini, occhiali dalla montatura blu scuro, una vistosa collana di simil-perle argentate, gonna un po’ lunga, come il padre voleva fosse fin da ragazzina, in modo che “piegandosi non doveva mai far intravvedere alcunché”.
L’infermiera Maria ha lavorato fin dai sui 20 anni nelle astanterie e poi nei reparti di medicina generale, ostetricia e ginecologia, pneumologia; alle Molinette e poi al Valdese, collaborando con don Ciotti e il gruppo Abele all’epoca del picco dell’eroina, da sempre volontaria Vincenziana, adesso nelle infermerie per gli immigrati anche con la ong World Friends.
Ricorda gli anni ospedalieri e i tanti meridionali o i veneti considerati stranieri e portatori di malattie. «Quanti tumori polmonari, quanti operai venuti dal Sud, grandi fumatori, vittime dei veleni delle fabbriche e della tubercolosi». Certo la tisi, la malattia dimenticata nel Nord del globo, ma ancora presente, anche in Italia, 5mila casi l’anno, metà italiani, metà immigrati. «Allora eravamo noi infermiere a fare le telefonate al posto dei meridionali per affittare una stanza in modo che non ci fosse subito un rifiuto per l’accento e le inflessioni di chi chiamava», ricorda Maria. «Povera gente giudicata e subito condannata, come oggi sento fare con gli extracomunitari». La storia si ripete e non insegna nulla. Maria aggiunge la sua versione e declinazione dell’uguaglianza al femminile: “non basta vedere l’altro, occorre guardarlo”. È quel “femminile di uguale” che è titolo di questo progetto che confronta storie piemontesi, di italiane e di immigrate, con le vite di donne della regione di Nairobi.
E qui Maria comincia con le sue parabole, storie di vita vissuta, per esplicitare la differenza tra vedere e guardare.
Il taglio dei capelli
C’era una volta un uomo ormai barbone, dormiva per strada, beveva per dimenticare. Aveva lasciato la casa alla moglie e ai figli e si era lasciato andare, ormai alcolizzato. Un sabato d’inverno di prima mattina lo vedo arrivare, trasandato ma anche tutto agitato e nervoso, lo vedo, poi lo guardo, lo fermo e comincio a informarmi: aveva appuntamento alle 9 a palazzo di Giustizia, udienza per poter tenere i figli una volta a settimana. Ma conciato così, quale giudice ti potrà ascoltare? Così in velocità decidiamo per doccia, taglio di capelli con la macchinetta che avevamo, barba e rasatura, vestiti nuovi, tiriamo fuori un cappotto di cashemire che tenevamo da parte, una bella sciarpa bianca, scarpe pulite, completo grigio. Era un figurino! Così sale sul tram e va verso Palazzo di Giustizia. Passano le ore e ormai quasi alle due mentre sto tornando verso il mio bus, eccolo che scende dal tram e mi corre incontro trasformato e felice: “me li hanno dati, me li hanno dati!”. Ecco i figli l’hanno motivato a cambiare, dopo anni si è rifatto una vita. Vedi a guardar bene: non pensavo che una doccia e un taglio di capelli facessero miracoli!
Il ferro da stiro
C’era una volta una donna, minuta e pulita, che veniva spesso lì a trovarci e passava alla mensa, si fermava un poco e poi andava via. Quel giorno la vedo e la guardo che aveva i vestiti tutti un poco stropicciati. La guardo ancora e colgo i suoi occhi che accarezzavano da lontano un ferro da stiro messo su un tavolino. L’ho guardata più attentamente e le dico se ne ha bisogno e se lo vuole in prestito. Mi piacerebbe, dice, ne avrei bisogno, ma a casa non ho più la corrente, mi vergogno ma non avevo soldi e non ho pagato. Mi hanno staccato la luce. E noi non si sapeva nulla. L’abbiamo aiutata a pagare e le abbiamo prestato il ferro da stiro. Se non la guardavo non avrei visto nulla di lei…
Senza parole
C’era un uomo che veniva ogni giorno a mangiare alla mensa. Non parlava mai, con nessuno, stava al suo posto, mangiava, fissava il sul piatto, non diceva nulla. Lo chiamavano il muto. Io l’ho visto e poi l’ho guardato e l’ho chiamato per nome, il nome che avevamo dalla prima registrazione. Così lo servivo chiamandolo sempre. E ancora lui muto. Poi un giorno, saranno passati 4 mesi, lui mi fa “Ciao Maria”… E da lì si è aperto e ha cominciato a raccontare la sua storia e le sue tribolazioni…
Abele abita qui
C’erano, qui a Torino, don Ciotti e il gruppo Abele che si occupavano di questi ragazzini drogati. Erano gli unici che facevano qualcosa per loro. Io, a quel tempo, parlo degli anni Settanta, lavoravo al pronto soccorso e don Ciotti portava questi ragazzini, perché erano davvero giovani, neppure 20 anni, spesso quindicenni, sedicenni che arrivavano in overdose. Don Ciotti, anche lui, vedeva e poi guardava. Io parlavo con questi ragazzi e mi preoccupavo e poi volevo avvertire i genitori. Così don Ciotti pian piano capì che si poteva fidare di me. Allora chiedeva sempre se quel giorno o quella notte c’era la Maria. Io vedevo questi giovani strafatti e mi chiedevo, “ma i genitori non si accorgono di nulla?”. Non ci parlavano? Quando li chiamavo cadevano dalle nuvole e non l’ho mai capito come facessero a non accorgersi di come stavano i loro figli. Passano gli anni e io collaboro e mi interesso alle vicende e alle persone e vedo come il gruppo Abele aiutava questi ragazzi per disintossicarsi. Un giorno don Ciotti mi propose di andare a lavorare con lui come infermiera, ma io allora avevo i genitori malati, ero passata al Valdese part-time, mio padre con l’Alzheimer, due figli, e continuavo nel mio volontariato vincenziano con i senza fissa dimora e i poveri. Ma anche lì, in don Ciotti ho scoperto la stessa cosa. Da come si avvicinava alle persone capivo che non era solo un vedere ma era un guardare…
Suore strabiche
C’era una volta una suora, suor Teresa e prima suor Palmira, da loro ho imparato tanto: Palmira dava le colazioni nei sotterranei delle Molinette ai barboni, suor Teresa aveva fondato il centro vincenziano di accoglienza e aiuto di via Nizza, vicino alla stazione. Così in ospedale ho incontrato suore che guardavano e suore che vedevano solo, suore che pensavano al malato e suore che pensavano solo a pulire il pavimento, suore che davano la carne e le bistecche solo a chi andava a messa. E quando noi laiche, con tanto di titolo, entrammo a fare le caposala ci furono suore che si sentirono escluse e che facevano dispetti, rubando persino per non far tornare i conti, ma a rimetterci erano i pazienti…Si era comunque tutte infermiere donne, solo alla fine degli anni Settanta iniziarono anche i maschi a fare il nostro lavoro, nel 1978 li accettarono nei corsi…
Pazienti esigenti
C’erano una volta nell’ospedale i grandi padiglioni, tanti letti senza alcuna divisioni, uno accanto all’altro, con reparti divisi uomini e donne. Quando si faceva la notte io che stavo nel padiglione maschi ci mettevo magari un’oretta a fare il giro; le mie colleghe al reparto donne almeno il triplo. Perché la paziente donna è più esigente, chiede, vuol sapere, pretende. L’uomo, in ospedale, con il personale è più accomodante, ma pretende dalla moglie. Quante ne ho viste di donne che avevano anche subìto angherie, tradimenti, botte, insulti poi stare lì fino alla fine a sostenere e prendersi cura dei loro mariti, nonostante tutto. L’ho saputo perché io non ho mai visto soltanto, andavo a guardare bene..
Maurizio Paganelli
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